Il food design: intervista con Alessandro Masturzo

Eugenio C. – homify Eugenio C. – homify
ทันสมัย โดย Alessandro Masturzo Design Studio, โมเดิร์น
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I designer posso applicare le loro leggi e le loro regole a tutto – o quasi -, ormai lo abbiamo imparato. Per mostrare che questo tutto è possibile, oggi ci addentriamo in un mondo poco conosciuto, ma che sta prendendo piede rapidamente tra le cucine più famose del mondo e gli studi di design più importanti: due mondi apparentemente separati hanno trovato la giusta alchimia nel food design.

Per affrontare questo argomento interessante abbiamo contattato il designer Alessandro Masturzo che in una sua ricerca personale ha approcciato al mondo food design per gioco, prima di capire le potenzialità delle materia in questione soprattutto in relazione alla verifica di un metodo progettuale. Alessandro Masturzo si è laureato in disegno industriale e nel 2008 ha inaugurato il suo studio personale. Le sue prime collezioni di lampade e oggetti hanno fatto parte delle edizioni 2009 e 2010 del Salone del Mobile di Milano. Oggi collabora con aziende di design ed è docente del corsoTecnologie e sistemi di produzione presso la Facoltà di Design e Arti della Libera Università di Bolzano.

Sig.Masturzo, come si passa dagli oggetti di design al food design? Quali sono gli elementi convergenti e quali quelli radicalmente differenti?

’La risposta è già nella domanda: con il design, ossia la progettazione. Per quanto mi riguarda gli elementi convergenti sono tutti quelli che un designer coinvolge normalmente nella sua evoluzione progettuale, dall'arte al disegno, dal concetto allo sviluppo tecnico, dalla sensorialità alle tecnologie (l'uovo di Pasqua è fatto con la stessa tecnologia di alcuni prodotti in plastica). L'avverbio radicalmente esclude alcune sfumature come ad esempio il ruolo della funzione, imprescindibile e progettabile in un oggetto, già intrinseca nel cibo; e ancora la figura del produttore, il target di mercato, il numero di pezzi prodotti. Ciò che trovo radicalmente differente, non tanto a livello progettuale quanto di presupposto e di approccio al progetto, è il fatto che un oggetto è la soluzione ad una necessità secondaria dell'individuo, mentre il cibo è simultaneamente necessità primaria per l'uomo e soluzione biologica di se stesso’.

Che rapporto ha il food design con l’architettura? Esistono delle vere e proprie fasi progettuali?

’Dove c'è progettazione, sia essa architettonica o di un prodotto o legata al cibo, esistono delle fasi che interagiscono tra loro continuamente fino al raggiungimento del prodotto finito, e oltre. Personalmente credo che tutto ciò che non preveda una critica del pensato e il superamento del limite acquisito, come i monofasici stati di immediatezza istinto caos, non consenta una coerente presa di coscienza di uno stadio progettuale, con conseguente comunicazione viscosa tra le diverse fasi’.

Dove trae ispirazione per le sue creazioni di food design? 

’Con il mio primo lavoro I cavoli a merenda, volevo creare una ricetta assurda e paradossale, in antitesi con la dolcezza di un biscotto; ho trovato nei detti della cultura popolare, notoriamente legata indissolubilmente al cibo, quella genuina irriverenza che cercavo. Più in generale trovo ispirazioni un po' ovunque, come per gli oggetti; Liquorice, disegnata per B-line, è nata durante una sagra paesana in Friuli, guardando i tubi esterni del muro di una vecchia casa e inalando il profumo zuccherino della tipica bancarella di dolciumi. Tali contaminazioni sono indotte dalle prime valutazioni progettuali, e dunque non casuali -pur mantendo un certo aspetto onirico – è un po' come quando si va a coglier porcini: se sai dove cercarli aumenti di molto le probabilità di trovarli.Infine mi ispiro cucinando, tagliando verdure ad esempio; non a caso la ricerca di Bruno Munari pubblicata in Good Design ha segnato la mia formazione, e il suo esercizio accompagna costantemente la mia ricerca’.

Un trend che si concentra sull’aspetto delle pietanze che influenza può avere sulla qualità del cibo?

’È evidente che nel cibo la fase di innamoramento o repulsione, tra fruitore e prodotto, ha tempi brevissimi; dunque il vestito assume una profonda rilevanza sensoriale. In termini assoluti sono propenso a pensare che non influisca sulla qualità molecolare del cibo, anche se aspetti biologici come l'acquolina in bocca o la gran fame possano far sembrare chimicamente il pasto appetitoso di quanto sia realmente. Direi piuttosto che l'aspetto di una pietanza influisce sulla proiezione sinestetica che della sua qualità soggettivamente ci creiamo – una sorta di ologramma qualitativo -; più che sulla qualità del cibo dunque, influisce sulla qualità della fruizione del cibo, poiché la percezione multisensoriale pre-pasto ci predispone verso ciò che stiamo per mangiare. Concludo con una provocazione: dalle mie parti si dice basta che sia buono  – sott. anche se non sembra bello -, recrudescenza antropologica dell'atavico tema della sopravvivenza; per me è in qualche modo la traduzione mangereccia della celebre frase: la forma segue la funzione’.

Il cibo è anche un segnale dei tempi che corrono. Il food design cosa ci racconta sui moderni stili di vita?

’Il food design, dalla prima carne in latta al finger food, ha contribuito a fornire soluzioni innovative, e non, alle sempre nuove necessità di una società in continua evoluzione; parallelamente il cibo progettato è diventato un mercato che ha prodotto nuovi bisogni ai quali la società si è adattata, con risultati a volte socialmente discutibili. Il cibo da asporto e i fast-food ci hanno raccontato la frenesia, i cibi-opere d'arte il lusso, nuove esperienze sinestetiche lo studio e la ricerca, il finger food l'ancestrale ricerca della protesizzazione del corpo umano; e in molteplici altri aspetti della società moderna, e contemporanea, è possible trovare riflessioni mangerecce che ne testimonino implicazioni, stati ed evoluzioni’.

Com’è considerato il food design in Italia? 

’Non saprei rispondere poiché ho approcciato il food design quasi per gioco, salvo poi capire che avevo la grande chance di avviare una ricerca personale e un esercizio di verifica del mio metodo progettuale – e credo che tale rimarrà finché non produrrò un prodotto commestibile su scala industriale – . La mia sensazione è che come spesso il design viene confuso con un mero intervento estetico, così il food design – che per me è il fusillo, il biscotto riprodotto in milioni di pezzi, la tazza di pane per la zuppa di funghi – sia stato pilotato verso quel trend estetizzante e marketing oriented, peraltro molto studiato e con solide basi di ricerca, che muta un piatto in opera d'arte, e dunque per pochi non industriale e non democratico’.

Crede ci possa essere un seguito per esposizioni e mostre interamente improntate sulle creazioni di food design?

’Direi proprio di sì. Se si fanno continuamente mostre interamente dedicate a prodotti di design, che scaturiscono – o dovrebbero scaturire – da necessità comunque secondarie dell'uomo, a maggior ragione il tema del cibo ha degli orizzonti progettuali vastissimi perché progettare il, con e per il cibo significa progettare, sempre e comunque, connessi a implicazioni e metodi atavici di una necessità biologica e imprescindibile dell'uomo; le possibilità di ricerca sono enormi, multidisciplinari, e culturalmente rilevanti’.

La ringraziamo per la Sua disponibilità.

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